#ioleggopisano: oggi il racconto di Fabiano Pini

La nostra rubrica con gli scrittori "di casa nostra" propone "Clochard"

Fabiano Pini

Fabiano Pini

Pisa, 3 aprile 2020 - Anche oggi appuntamento con #ioleggopisano, oggi è il turno di Fabiano Pini e del suo racconto "Clochard".

Chi è - Fabiano Pini è pisano doc dal 30 aprile del 1966, anno della sua nascita. Nella sua adorata città, vive, lavora e scrive in quantità industriale. All’attivo ha già undici pubblicazioni tra narrativa e collane per bambini. Diversi i riconoscimenti fin qui ottenuti grazie a una scrittura semplice, intensa che colpisce nel vivo dei ricordi e nell’anima. Sempre pronto a raccogliere nuove sfide trovando sempre spunti e idee dalla vita quotidiana, dai fatti realmente accaduti, legandoli con la fantasia al punto da non capire dove inizia una e finisce l’altra.

CLOCHARD

Mi siedo nella sala attesa della stazione ferroviaria di Pisa, aspettando il Freccia Bianca delle nove e zero sette per Roma. Ho alcuni minuti a disposizione, guardando l’orologio che segna le otto e quaranta. Decido di messaggiare a mia moglie la sorpresa di aver trovato le strisce blu a pagamento, dove di solito erano bianche: “Adesso dobbiamo pagare anche qui!”. Nelle panchine davanti a me, due donne intente sui loro cellulari in evidente attesa pure loro. Dietro, verso il bar, altre persone. Nella panchina di fondo, adiacente alla parete che ci separa dall’ufficio informazioni, ho notato precedentemente una clochard con il suo carico di masserizie appoggiate su due sedute accanto a lei. Mentre armeggio con il cellulare mi arriva una chiamata; ancora la consorte. Nel mentre converso a bassa voce per non disturbare, noto che la bionda senza tetto si alza, avviandosi verso l’uscita e bofonchiando qualcosa, credo all’indirizzo di una delle due donne, o a tutte e due, sedute di fronte a lei ma onestamente non ci faccio caso, non buttando neanche uno sguardo incuriosito.

Terminata la telefonata, riprendo a sbirciare su una delle maggiori reti sociali l’andamento della mia pagina, di come seguono i miei post, leggo i commenti e osservo il numero crescente dei seguaci, pensando di dover realizzare un nuovo video di ringraziamento per la fiducia dimostratami. Ormai è diventata una piacevole abitudine quando, ogni mille “mi piace” alla pagina, se ne aggiungono altri facendola crescere. Avendo superato la soglia dei seimila seguaci, ritengo opportuno dimostrare loro un segno di ringraziamento per la loro fiducia.

Non mi accorgo che nel frattempo è rientrata, onestamente non ho neanche notato se fosse veramente uscita dalla porta o se ne fosse rimasta in qualche posto della grande sala d’aspetto, quando a un certo punto del suo camminare, si ferma davanti a me, iniziando a parlarmi sottovoce con un tono simile a chi parla in modo disagiato per la mancanza della dentatura; ma lei, noto stavolta, anche se non tutti i denti ce li ha. Non capisco le sue parole e non comprendo quello che mi chiede. Restando con le gambe accavallate e le mani che tengono il cellulare appoggiato sul ginocchio, mi abbasso gli occhiali fin sulla punta del naso guardando la donna con fare indagatore misto a “questa mi vuole spillare quattrini!” Si siede davanti a me, continuando con le sue parole ancora incomprensibili anche se qualcosa comincio a percepire.

“Non importa che tu mi guardi così, non ti mangio mica!”, con un filo di voce gentile che lascia trasparire una timidezza strana, quasi avesse timore di provocarmi fastidio ma in realtà, non me ne ha dato nessuno; anzi.

Poi, partendo un po’ da lontano, inizia a descrivere la sua misera condizione per giungere ovviamente dove voleva arrivare: “Almeno un caffè!”, chiedendomi, aggiungendo che le tonerebbe scomodo tornarsene a casa per fare colazione, “già che sono qui, la farei al bar!” Probabilmente una casa la possiede veramente, una di quelle costruite in mattoni intendo, non con le scatole di cartone, visto che ha rincarato la dose tirando in ballo, non so come né perché, suo padre e sua madre.

Non ha la solita faccia inespressiva o aggressiva che alcuni suoi “colleghi” ostentano quando avanzano richieste di elemosina, né ha insistito oltre il lecito e per tutta onestà, mi ha rivolto una sola richiesta peraltro con la dovuta educazione che non ti aspetti da quel tipo di persona, lasciandomi veramente sorpreso. Ovviamente non ha un aspetto da donna di alto rango né i suoi vestiti sono sagomati da atelier di alta moda ma quel suo modo di fare garbato, fa passare in secondo piano anche la vista di quel piumino dal color celeste sbiadito dal tempo e logoro dall’uso. Continua a parlare con quel linguaggio altalenante e poco chiaro ma più che lo ascolto, più percepisco quei suoni come un qualcosa di intuibile, come se il prestare orecchio ripetuto e continuo, accendesse un fantomatico traduttore simultaneo rendendo comprensibilissime quelle parole. Non so come abbia fatto ma è riuscita a farmi compiere quel gesto che non ho mai fatto con così tanta indulgenza ma che anzi, ho sempre evitato per una sorta di principi che lì per lì non mi sono venuti in mente.

Apro il portafogli e vedo che nel porta monete mi sono rimasti solamente otto centesimi, pochi per un caffè; gli altri nove euro di metallo li avevo “generosamente” consegnati in quell’infernali macchinette succhia soldi della Pisamo, l’emerita banda gestore dei parcheggi. Dovendo scegliere tra una banconota da cinque euro e una da cinquanta e pensando che chiedergli il resto pareva brutto, sfilo il taglio più piccolo e lo consegno alla donna che ancora non capisco perché abbia scelto proprio me tra le persone presenti, per attaccare bottone.

Tra una parola e l’altra, apprendo la domanda “Tu di cosa ti occupi?”, con fare quasi da conoscente che non vedevi da qualche anno e in un caso fortuito di incontro, cominci a sciorinare la tua vita cercando di colmare buchi di non convivenza. “Mi diletto a scrivere libri”, rispondendo secco senza tentennamenti, ostentando una certa durezza che mi fa tornare al pensiero iniziale di non voler parlare con lei perché mi voglio occupare delle mie cose. Invece proseguo, meravigliandomi del mio gesto, fregandomene della gente intorno che, penso, avranno avuto da dire qualcosa tipo, “Ma guarda quello come si fa abbindolare da una barbona. Meno male è andata da lui perché se veniva da me…!”, come se avessi commesso chissà quale tipo di delitto o avesse chiesto un passaggio per tornarsene a casa. È vero, siamo pieni di pregiudizi, lo siamo da sempre almeno da quando ci riteniamo in grado di criticare gli altri, mentre giustifichiamo il nostro operato: noi facciamo sempre bene, sono gli altri a sbagliare.

“Se l’è cercata quella vita, perché mi viene a chiedere soldi che mi guadagno onestamente? Che se ne vada a lavorare invece di importunare la gente!”. Mi pare di sentirli quelli dietro di me e pure le due donne davanti che nel mentre spippolano su Candy Saga e Facebook, girano un attimo gli occhi per osservare le gesta della donna che ho di fronte a me: figuriamoci se non mi hanno ingiuriato! Non capisco ancora perché ma “sento” che devo continuare ad ascoltarla e mentre do una veloce occhiata all’orologio, decido di proseguire fino al tempo concessomi da quei sette minuti che mi dividono tra la sala d’aspetto e la partenza del treno.

Poi mi estraneo dalla conversazione, ricevo i suoni ma non li distinguo più, come se il traduttore si fosse inceppato ammutolendosi pure lui, lasciandomi da solo con la clochard, “Oddio e adesso?”. Mi accorgo invece, di osservare meticolosamente la sua figura in una sorta di scanner utile a memorizzare più cose possibili di lei, “Ma per cosa poi?” mi chiedo, non comprendendo l’utilità del mio gesto, il movente di tutto ciò cominciando a preoccuparmi: “Sto forse invecchiando e intenerendomi come non ho mai fatto nella mia vita?”. La luce blu elettrico e il netto rumore del mio personale scanner, continua nel suo lavoro visionando i grigi e lunghi capelli, mescolati a quel lontano ricordo di biondo platinato che un tempo, immagino, lucenti e perfettamente in ordine e profumati. Quella sciarpa di stoffa indefinita e di un grigio rovinato, trattengono dietro il collo la parte di capelli che insistono nel voler ancora crescere in ordine sparso, nonostante l’alimentazione ricevuta negli ultimi chissà quanti anni, non sia perfettamente in linea con la dieta mediterranea. Le labbra carnose e già crepate probabilmente dalle prime notti fredde di un inverno ancora in ritardo, si muovono in una danza quasi soave e beneaugurante, come se avessero trovato il compagno di ballo con il quale sfogarsi, destandosi da un torpore verbale che dura da diverso tempo, nel tentativo di sgranchire la mente e la voce, uscendo da quel logorroico tran tran quotidiano privo di socialità, privo di amore, di parole diverse da una litania giornaliera che immagino, la attanaglia nelle interminabili giornate senza niente da fare, girovagando di giorno in cerca di cibo, di compagnia o di chissà cos’altro, mentre di notte in cerca di un riparo dal freddo e dalla pioggia ma comunque da sola.

Forse è così, forse no, forse anch’io sono stereotipato dagli innumerevoli film e visione univoca dove gli homeless sono disegnati così, dove la massa classifica queste persone come non persone o esseri umani dannatamente persi e da lasciare dove stanno, ai margini della vita ma soprattutto, lontani dalle vite delle “persone per bene”, che hanno una dignità decorosa da rispettare, da non compromettere con “quella gentaglia” neanche offrendogli un caffè gettandogli per terra quei pochi spiccioli, peraltro fastidiosi, che si ritrovano nelle tasche.

Poi per un attimo soffermo lo sguardo sulle dita delle mani, su quelle unghie vagamente colorate, alcune si altre no. “Ma dove lo trova lo smalto? Lo compra, lo ruba, lo trova nei cassonetti?”. Il tempo da dedicare alla manicure di certo non le manca ma lo smalto? Mi incuriosisce ancora di più e le osservo meglio mentre lei, concentrata sulle sue parole, continua a dire quello che vuole, il traduttore è ancora spento. Non faccio in tempo a guardare che tipo di pantaloni indossa, pare una tuta, ma noto al volo le scarpe, una certa vaga somiglianza a un classico paio da tennis.

“Scrivi libri? Che bello! Eeh, io ho una storia da scrivere lunga una vita! E prima o poi la scrivo!” Toh, è ripartito il traduttore! “Brava, scrivilo, inizia e non fermarti fintanto che non arrivi alla fine”, di certo il tempo non le manca e probabilmente neanche gli spunti.

Chissà cosa avrà da dire, quale sarebbe la sua prima frase, come scriverebbe l’incipit e soprattutto, che razza di finale metterebbe. Probabilmente non riuscirebbe più neanche a sorreggere tra le dita una penna e forse, davanti a dei fogli bianchi, si chiuderebbe in un mutismo inespressivo rispecchiandosi in quelle pagine vuote come la sua vita, da quando è partita la sua avventura da errabonda. Niente mi toglie dalla testa che quella vita è diventata una non vita per scelta, in conseguenza di un evento o una serie di eventi bellicosi, cattivi, bastardi, talmente violenti da spingere un uomo o una donna ai margini dell’oblio, a evitare per un soffio il suicidio anche se a mio avviso, quella scelta è una sorta di suicidio controllato e continuo, un uccidersi giorno dopo giorno per il resto della propria esistenza, per quanto possa durare.

Chissà quale potrebbe mai essere la copertina di quel libro che racchiude, per adesso, un mucchio di ipotetici fogli bianchi già numerati come gli anni fin qui trascorsi, dove in prima pagina spicca il titolo, “L’inizio” e nell’ultima si intravede la scritta “Fine”. La fine di un inizio che non c’è mai stato o è stato cancellato appena scritto, come quando uno scrittore in piena crisi, non trova neanche una parola per scrivere l’inizio.

Chissà quale quarta di copertina potrebbe mai avere quel libro ben stampato, per adesso, nella mente di una donna con una maledetta voglia di chiacchierare con qualcuno, di sentirsi ascoltata per quello che ha da dire e di non essere osservata come un fenomeno da baraccone o una belva da circo rinchiusa nella sua gabbia quando non esegue il suo numero, suscitando compassione e tenerezza per quello stato di vita che pare in completo abbandono ma che non invoglia nessuno a presentarsi innanzi a lei porgendogli un saluto, guardandola con occhi umani di chi ha negli occhi il desiderio di aiuto.

“E sai come lo inizierei?”, con il sorriso stampato in volto e come intuisse i miei pensieri, all’improvviso le si accendesse una luce benevola rischiarando per un istante la sua vita, una sorta di faro da palcoscenico che illumina l’attore protagonista, nell’intento del suo monologo lungimirante seguito da uno scroscio infinito di applausi.

“C’era una volta una principessa…”, terminando la frase al buio, spegnendo quel sorriso iniziale come se qualcuno avesse tolto d’un colpo la corrente al faro e quell’attore si fosse ritrovato istantaneamente a esibirsi in un teatro vuoto, senza applausi, con il sipario chiuso. Come resterei io, se durante una presentazione la gente cominciasse senza una spiegazione logica, a uscire dalla sala, senza motivo, lasciandomi solo con le mie parole, abbandonando i miei libri al loro destino infame, senza nessuno che li comprasse né che li leggesse. Avrei faticato per niente, ci resterei malissimo, scoppierei a piangere e urlerei “Bastardi! Ci lasciate soli me e i miei libri? Che vi abbiamo fatto?”. Ecco, adesso ho paura anch’io, paura di aprire un mio libro e di scoprire che sotto la copertina ci sia soltanto un mucchio di fogli bianchi, vuoti, come il vuoto che il pubblico mi ha lasciato andandosene via, “Bastardi…”. Che farei senza l’inchiostro per i miei pensieri, che ne sarebbe di me e delle mie giornate, come passerei il tempo forse girovagando da una libreria all’altra, incollato alle vetrine perché non mi farebbero entrare, o rovisterei dentro i sacchi della raccolta della carta, il mercoledì, nella disperata ricerca di qualche pezzo di libro strappato da poter leggere. Ma quale sacrilegio sto dicendo? I libri non si gettano né si strappano al massimo si regalano! E gli altri giorni! Dio, che disperazione! Non provo neanche a immaginare come possa trascorrere uno solo giorno così quella donna, figuriamoci un’intera vita. Eppure ci riesce, con apparente facilità, con celata nostalgia o con pianti disperati e nascosti agli occhi della “gente per bene”, magari dietro un cassonetto dell’immondizia o nei silenzi notturni di una stazione ferroviaria dove sovente trovano rifugio come la tana di un animale.

“Ma perché questa donna è venuta da me stamani? Che giorno è mai questo?” penso, mentre rifletto sull’ultima frase che il traduttore mi ha sfornato, “C’era una volta una principessa…”, rimbombandomi nel cervello, come se il mio sub inconscio stesse cercando di memorizzare quella frase. “Ancora? Anche questa? Ma qualcuno mi vuol spiegare perché?”

Guardo nuovamente l’orologio, nel tentativo di leggere, finalmente, l’orario di partenza staccandomi da questa assurdità, contrapposta con tenacia da un’immaginabile voglia di restare e ascoltare all’infinito quale storia voglia raccontare questa donna: ancora tre minuti…

“Con mio padre le cose andavano bene ma con mia madre…”, troncando la frase con una smorfia che lascia intendere molto, mista tra terrore e nostalgia, tra dolore e voglia di vivere e con quelle parole e quella espressione, mi apre la mente lasciandomi pensare “ma allora una storia ce l’ha per davvero!” Poi squilla la campanella, una voce gracchiante annuncia la partenza, il traduttore si spenge, “No, proprio adesso!”. Proprio ora è scaduto il tempo? Quando forse, la nebulosa che attraversava la sala d’aspetto si stava diradando lasciando intravedere un po’ di luce. Mi alzo, prendo le mie cose e faccio il primo passo verso la porta, verso la salvezza quando il traduttore ha un sussulto, un gracchiante ritorno: “Devi partire? Tanto io sono qui!” e sono fuori dalla porta. “Non ho capito, che ha detto?”, mentre velocemente mi inerpico per le scale che dal sottopasso mi sbarcano al binario quattro.

Forse quella principessa è vissuta veramente?

Ma perché oggi e perché proprio a me doveva capitare?

Tra tutti quelli che erano in quella sala, perché è venuta da me?

Mi stavo facendo gli affari miei, mica l’ho guardata in cagnesco, in fin dei conti ho solo spostato gli occhiali sulla punta del naso, che avrò fatto mai!

E se dovessi essere proprio io a scrivere quella frase?

“C’era una volta una principessa…”